Gregorio leti spirito satirico. I. Non fu tutto merito e tutta colpa dello zio vicario se Gregorio di giovane scapestrato divenne uomo d’austeri costumi; d’incredulo cattolico fidente calvinista e di fanullone uno scrittore fecondissimo. Già nella fanciullezza e giovinezza prima troppo l’avevano fatto digiunare e dir pater noster e servir messe e baciar mani sporche di preti e di frati quelle due figure paurose del padre Merenda e di Don Grassi. Poiché da sua madre, Isabella Lampugnani, rimasta vedova di Geronimo Leti governatore d’Antea, era stato posto nel 1639 alla scuola de’ gesuiti di Cosenza, ed egli, irrequieto scolaro e incomposto chiericuzzo, era cresciuto dai nove fino quasi ai vent’anni con l’oppressione e il fastidio addosso del Grassi per custode e del Merenda per precettore: tanta oppressione e tale fastidio che quando gli morí la madre e passò in Roma alla tutela dello zio don Augusto, “non poteva piú vedere né chiese né sacerdoti„. Lo zio, il quale era un po’ petulante, sí, ma in fondo un’ottima pasta d’uomo, e vagheggiava pe ’l nipote la fortuna medesima ch’egli aveva avuta nella prelatura, avvedendosene, con che sbigottimento s’imagini!, pensò dargli a maestro e guida di coscienza quello sciocco del suo cappellano; Non l’avesse mai fatto! Il cappellano si mise a mortificare Gregorio nelle confessioni frequenti e a gravarlo di sbadigliati digiuni e rabbiose recitazioni d’offici, e Gregorio, caduto dalla padella nelle bracie, prese con maggiore ardire a ridere per le strade in faccia ai preti e per le chiese ai santi; a dire qualche porcheriòla; a leggere libri proibiti e ad accarezzare le ragazze. Per dire la verità, che colpa avea lui se le donne vedendolo “fresco, sano, robusto e ben fatto della persona„, gli volgevano occhiate lusingatrici e se egli, piú tosto che ad attendere i beni del sacerdozio, si sentiva “inclinato a godere la dolcezza del maritaggio?„ Basta; còlta un giorno nella chiesa vescovile una bella e docile giovinetta e trattala pudicamente dietro un banco le diede solo sette baci, e poi, cosí per gioco, s’andò a confessare dal cappellano; e questi in penitenza gli ingiunse su ’l serio “di mangiare o almeno ben masticare sette fila di paglia della lunghezza ciascuna di un piede, per causa che la confessione portava sette baci„. Era dunque l’esorbitanza d’una ridicola e proterva severità, e Gregorio stucco e ristucco piantò lo zio e si recò a Milano dai parenti della madre, presso cui stette due anni. Ma pur troppo don Augusto Leti saliva rapido la scala degli uffici ecclesiastici, e divenuto vicario d’Orvieto con in vista la nomina a vescovo, volle ancora il nipote con sé. Lo riebbe infatti, e cominciò ad esortarlo con paterna dolcezza che, non avendo beni sufficenti per vivere gentiluomo, si facesse prete o alla peggio soldato, e onorasse la famiglia nella maniera di suo padre. Gregorio scuoteva la testa: Né armi né brevario! Piú tosto medico o legale; ma lo zio vicario, che con ragione aveva poca fede nella scienza e nella legge umana, scuoteva egli pure il capo sospirando e scongiurando Iddio, e alla fine lasciò Gregorio libero di sé e della roba sua: chi avrebbe potuto frenarlo? Il giovinotto lieto e avventato come un puledro che si senta le briglie su ’l collo, vagò alcun tempo per l’Italia e sprecò gran parte dei quattrini lasciatigli dalla madre; indi, com’era naturale, fece ritorno allo zio già vescovo in Acquapendente, che l’accolse tuttavia con bontà e con speranza di rimetterlo per la strada buona. Ma in Gregorio non c’era solo lo scapato, c’era l’incredulo, e che guajo per monsignor vescovo avere un nipote il quale non voleva piú comunicarsi! — Gregorio, Gregorio — gli diceva —: se tu non pigli altra strada, o che tu morrai eretico, o che sarai processato in qualche inquisizione! — Quand’ecco un giorno di settembre del 1658 monsignor vescovo cerca il nipote e non lo trova; e una giovine, Antonia Ferretti, che il nipote di monsignore aveva fatta uscire di monastero con promessa di matrimonio, cerca l’amante e non lo trova: né lo zio seppe piú nulla di lui fino a che apprese ch’egli si perdeva in Bologna nell’amore d’una cantatrice; né la fidanzata ebbe piú altra notizia di lui fino al dí in cui le fu detto ch’egli era a Ginevra calvinista e ammogliato! Tutto vero; perché da Acquapendente Gregorio era corso ancora qua e là in cerca di vita allegra, e venuto a Bologna con la cantante e compiute chi sa quali pazzie, aveva poi considerato seco medesimo come seguitando di tal passo avrebbe in poco tempo dato fondo a quel po’ di roba che gli rimaneva, e come il meglio gli sarebbe stato recarsi a Parigi per cercarvi fortuna alla corte. Cosí postosi subito in viaggio e giunto a Valenza, vi aveva ottenuta la protezione del marchese di Valavoir generale dell’armi francesi in Italia; s’era inteso con un capitano ugonotto a rilevare i mali della Chiesa di Roma, e poscia s’era invaghito di portarsi a Ginevra, luogo di paradiso per la libertà del governo e per la rettitudine del calvinismo che vi si professava. Rimasto a Ginevra alcuni mesi dopo fatta l’abiura e passato a Losanna, qua aveva stretta amicizia co ’l celebre medico Guerin, padre d’una ragazza bellissima diciottenne; e come il medico filosofo l’innamorava sempre piú della riforma, egli pian pianino innamorava di sé la figliuola di lui, la quale presa in moglie tre mesi dopo, s’era ricondotto in Ginevra. Appena fu risaputo ch’egli abitava in quel covo di eretici, il povero zio e la povera Ferretti gli scrissero amorosamente che tornasse. “Caro nipote, ritorna per darmi la vita e non permettere che uno zio, un vescovo di Santa Chiesa, uno che ti ha servito da padre, muoia da un colpo scoccato, se non dal tuo braccio, dal tuo cuore..... Se hai moglie conducila teco, perché tanto piú gloriosa sarà la tua conversione„ —. — “Corre voce che siete già maritato, ma questo è dubbioso; ma quando vero fosse, credo di poter meritare il vostro amore nuziale quanto ogni altra, e voi sapete che gli maritaggi degli eretici qui si scancellano con l’acqua santa.... Venite dunque, caro mio bene, care mie viscere, caro mio cuore, per levare da qualche disperattione la vostra serva che vi desidera sposa„. Preghiere vane: meglio dello zio vescovo, il babbo Guerin; meglio che Antonia era Maria; meglio che il cattolicismo, il calvinismo, e che Acquapendente, Ginevra; e per Gregorio Leti era cominciata una vita nuova di fede sincera, d’affetti domestici, di operosità e d’austerità di costumi. Già: per religione e amor della moglie il libertino d’una volta diventò e si mantenne rigido custode di sé stesso e ammonitore della morale negli altri; di che dan fede le molte sue lettere a chi caduto in fallo l’andò richiedendo di consigli e di protezione, e accertano le prove di virtú ch’egli dié in assai circostanze pericolose. Ed io credo, non con molta ammirazione, ch’egli riuscisse a resistere pure ai vezzi di quella singolare donnina che dal Sainte-Beuve fu chiamata la Manon Lescaut della corte di Luigi XIV; di quella singolare donnina che ora lusinga la mia fantasia, tarda ricercatrice di celebrate beltà, con la bizzarria e la grazia e il sorriso ond’ella nella vita breve passò per tante colpe e vicende. II. Sidonia di Lenoncourt, orfanella del marchese di Mariole, a quattordici anni vinse la volontà del Re Sole negando di sposare un fratello del ministro Colbert; ma poiché un marito le bisognava, si cesse in moglie a un nipote del maresciallo di Villeroy, il marchese di Courcelles. E fu gran male: la notte stessa delle nozze il marchese volgare e cattivo l’avvertí ch’ei “pretendeva fosse per riuscir piú savia della madre„; ella si ribellò all’insulto e non “si consumò il maritaggio„, e poi inacerbitosi il dissidio, un bel giorno, quando la gente diceva tuttavia che “la signora Courcelles non aveva ricevuto dal marito che il nome„, Sidonia s’indusse a fuggire. Ahi che il marito la raggiunse tre miglia fuori di Parigi e la “ritenne piú stretta„! Ma come la giovine meditante vendetta acerba ebbe la ventura d’accendere della sua bellezza nient’altri che il Louvois, il famoso rivale del Colbert, e s’avvide che se essa avesse consentito all’innamorato, l’indegno marchese avrebbe assentito in silenzio (troppo onore che il ministro Louvois si accontentasse di sua moglie!), oh allora ella, per riuscire a un supremo trionfo, adoperò sagacia e fascino e ogni arte a sedurre proprio un cugino di suo marito, il bel cavaliere di Villeroy, e riuscí infatti a strapparlo dalle avide braccia della principessa di Monaco. La corte in cui una somma ipocrisia velava una somma corruzione, si levò a scagliar pietre su la fortunata e audace peccatrice, e gl’intrighi della principessa di Monaco e la rabbia del Louvois la fecero rinchiudere in quel convento medesimo delle Figliuole di Maria dove gemeva per odio maritale l’“illustre„ avventuriera Maria Mancini, la nipote del cardinal Mazarino. È naturale che la Mancini accogliesse in amicizia l’allegra compagna di sfortuna, e come il sangue bolliva nelle loro vene e bisognava sfogassero contro qualcuno il desiderio vivo della ribellione, s’accordarono subito in far ammattire quelle povere monache che avevano l’obbligo di custodirle. Quante birichinate facevano mai e di che gusto rideva in apprenderle la maestà di Luigi XIV! Versavan l’inchiostro nelle pile dell’acqua benedetta; s’aizzavano contro di notte, pe ’l dormitorio, de’ cagnolini e urlavan tiäut (il grido dei cacciatori di cervi); riempivano d’acqua delle grandi casse perché sfuggendo e trapassando a poco a poco il piancito andasse a sgocciolare sui letti delle suore nel piano di sotto; snervavano le suore vecchie, scelte per accompagnarle a passeggio, in lunghissime e rapide corse; e cosí via. E che bene si volessero quelle due... — come dire? — aristocratiche sgualdrinelle, provarono l’una all’altra una sera che udendo rumore di cavalieri attorno il convento di Chelles, dove erano state trasportate dal chiostro delle Figliuole di Maria, e credendo la Mancini fosse il marito suo che venisse con compagni a rapirla, s’aiutarono in fretta a nascondersi; e poiché nella grata del parlatorio era un buco, apertovi giorni innanzi per dare ingresso a un pasticcio di lepre, allargarono il buco e, con che stento Dio ve ’l dica, passarono attraverso di quello. Ma l’allarme fu falso; e però esse si disposero zitte e chete a rientrare per la via medesima onde erano uscite. La Courcelles rientrò con discreta fatica; la Mancini invece rimase piú d’un quarto d’ora tra due ferri della grata che la stringevano alle costole in guisa da non consentirle né di procedere né di retrocedere: tira e tira, finalmente la Courcelles l’ebbe a sé oramai svenuta del tutto. Se non che a pena ottennero licenza d’uscire libere s’inimicarono acerbamente; né ciò poteva non accadere per la conformità degli animi e delle voglie, la quale le condusse ad innamorarsi entrambe d’un uomo medesimo: il giovane Cavoy. Tira e tira, anche questa volta la vittoria fu per Sidonia; e Maria andata un giorno al palazzo dell’odiosa amica (pur nel seicento le signore congiunte da un odio cordiale non ripugnavano dal farsi visita) e ricevuto l’annunzio che madama non era in casa mentre alla porta stava in attesa la carrozza del Cavoy, si vendicò rivelando la tresca al signor di Courcelles. Cosí il marchese, che faceva un po’ la corte alla Mancini, fu costretto a sfidare con un pretesto qualunque il dolce amatore di sua moglie. La notizia del duello, per cui il Cavoy si buscò una non piccola ferita ad un braccio, giunse tosto all’orecchio del re, il quale, fiero in castigare i duellatori, comandò che i due cavalieri, invano accorsi a pregarlo di perdono, fossero condotti alla Conciergerie e la loro colpa fosse sottoposta al giudizio del parlamento. I rivali allora a convincere che s’eran battuti non per odio, ma per “casuale rancontro„, e che anzi si volevano il piú gran bene del mondo, si ridussero a dormire nella medesima camera; traditore e tradito mangiarono e giocarono insieme; e furono assolti. Non sfuggí per contro a pena aspra Sidonia; alla pena di sofferire nel castello di Maine la sorveglianza della suocera vecchia e malevola. Che fare a dispetto di questa? Peggio di prima! Con chi? Con qualcuno — e per darsi buon tempo trovò un paggio del vescovo di Chartres, un giovine cosí valoroso in distrarla, che delle sue distrazioni ella ebbe presto segni visibili addosso. Inutile dunque sottrarsi; e il marchese si richiamò al parlamento: convinta adultera, ella fu condannata a perpetua clausura co ’l capo raso. Ma rimaneva tuttavia una speranza in appellarsi al tribunale della Tournelle, e ciò fece Sidonia; e frattanto riuscí a fuggire dal carcere con uno strattagemma assai semplice. La sua cameriera, la quale aveva licenza d’entrare e di uscire dalla prigione, finse un doloroso mal di denti e per due giorni si mostrò ai custodi co ’l viso tutto fasciato e nascosto tra i veli in modo che appena le si vedevano gli occhi: il terzo giorno la padrona usci in vece e in veste della cameriera; né alcuno s’avvide di quell’inganno prima che ella con la carrozza gli abiti e i denari d’un antico amante si fosse messa in sicuro. La serva fedele venne condotta fuori del regno, e Sidonia, scampando alla caccia del tristo marito, si recò a Digione, e da Digione a Ginevra, dove una mattina, nell’osteria dei tre Re, presentò una lettera commendatizia a un noto scrittore calvinista: Gregorio Leti. — “Non crediate, signor Leti — gli disse la procace e sagace marchesa —, che io sia qui per male affare: la ragione è che il mio marito mi vuole et io non lo voglio„. Poverina! E che occhi, mio Dio!; che voce, che bocca, che guancie, che.... Lasciamolo dire al Leti stesso: “oh che poppe! (certe cose si vedevano per indulgenza della moda) oh che mammelle!„; e, a raccogliere la descrizione di tutto il resto in un’espressione sola, “che Paradiso terrestre!„ Ma il Leti era scialbo pittore, né alcuno ritrasse meglio madame di Courcelles che madame di Courcelles: il ritratto ch’essa si fece è opera di cesello ardito arguto graziosissimo. — “Confesserò che se non sono una gran bellezza sono tuttavia una delle piú amabili creature che si possan vedere: nell’aspetto e nei modi non ho cosa che dispiaccia e tutto in me par fatto per innamorare; e le persone piú dissimili d’indole e di animo si trovano d’accordo nel dire che non si può vedermi senza volermi bene. Sono alta, con figura mirabile, con bei capelli bruni, proprio come convengono a rilevare la freschezza e la bellezza della mia carnagione, la quale per altro ha qua e là dei segni non radi di vaiolo. I miei occhi sono grandi, né celesti né neri, ma di certa tinta fra le due singolarmente piacevole, e nel tenerli un po’ socchiusi, per abitudine, non per affettazione, do al mio sguardo una tenerezza e vaghezza senza pari. Ho il viso d’una regolarità perfetta: è vero che non ho la bocca molto piccola, ma non l’ho poi mica tanto grande. Qualcuno afferma che nelle proporzioni giuste della bellezza io difetterei per il labbro inferiore un poco troppo sporgente; ma io credo mi facciano questa censura perché non possono farmene altre, e perdóno a quelli che dicono ch’io non ho la bocca del tutto regolare, se per loro è un difetto che mi dà un’ineffabile grazia e una vaga vivacità nel riso e nei moti del viso. “J’ai enfin — nella traduzione il ritratto perde, tardi me n’avveggo, colore e finezza — j’ai enfin la bouche bien taillée, les lèvres admirables, les dents de couleur de perle; le front, le joues, le tour du visage beaux; la gorge bien taillée; les mains divines; les bras passables, c’est à dire un peu maigres; mais je trouve de la consolation à ce malheur par le plaisir d’avoir les plus belles jambes du monde. Je chante bien sans beaucoup de méthode; j’ai même assez de musique pour me tirer d’affaire avec les connaisseurs. Mais les plus grand charme de ma voix est dans sa douceur et la tendresse qu’elle inspire; et j’ai enfin des armes de toute espèce pour plaire, et jusqu’ici je ne m’en suis jamais servie sans succès. Pour de l’esprit, j’en ai plus que personne; je l’ai naturel, plaisant, badin, capable aussi des grandes choses, si je voulais m’y appliquer. J’ai des lumières et connais mieux que personne ce que je devrais faire, quoique je ne la fasse quasi jamais —„. Gregorio Leti, adunque, rapito d’ammirazione, ma pur senza sospetto o desiderio di ricadere nelle antiche voglie, alloggiò la marchesa in casa d’una signora per bene e la introdusse nella miglior società ginevrina; e come l’accompagnava egli per tutto, forse tratto dalla vanità lusingata — per vederla “era cosí grande il concorso nelle strade che ci voleva mezz’ora a far cento passi„, — anche si accese un pochino di lei. Tuttavia capí presto che un abito nero e semplice non poteva reggere in confronto alle “casacche di velluto e alle spade d’oro e d’argento„ delle quali fu ressa intorno a Sidonia, e richiamatosi ancora a sé medesimo riprese i “libri e gli scartafacci„ ch’aveva banditi e continuò la vita di Filippo II. Intanto madame di Courcelles trovava impunemente e liberalmente offeriva il piacere di agevoli amori e dominava in sovranità di grazie e di spirito tutta Ginevra. Regina, con mutabilità fanciullesca accarezzava e incrudeliva: un capitano del reggimento d’Orléans assunto tra gli altri ai suoi baci e poi abbattuto quand’era piú folle di gioia con inganni e disprezzo, si vendicò dando a leggere le lettere di lei agli amici; e fu una copia di queste lettere che Chardon de la Rochette rinvenne e diede alle stampe nel milleottocentotto. Ma d’improvviso Sidonia lasciò la Svizzera, riprese la via di Parigi, si fece rinchiudere in carcere. Era morto il marchese marito ed ella sperava, anzi sapeva per certo che con la prigionia volontaria avrebbe meritata “una sentenza onorevole che le riacquistasse, diceva cosí per dire, la riputazione, e, quel che le importava davvero, una gran parte della sua dote„. Gregorio Leti, il quale forse non pensava piú a lei, trovandosi a Parigi nell’agosto del 1679 ricevette una letterina proprio di lei, che tutt’allegra lo pregava d’una visita “non piú corta d’una giornata„; ricordasse che altra volta le aveva insegnato essere opera di pietà visitare i prigionieri; di piú, venisse a consolarla della morte di suo marito, alla qual consolazione la troverebbe “molto ben disposta„. Il Leti, che pure era disinvolto, che pure in gioventú aveva baciate le ragazze in chiesa, rispose con una misera lettera impacciandosi a scherzare intorno la prigionia di madama e alla libertà delle donne francesi, e a dichiarare, tra molte lodi iperboliche e proteste d’affetto, che non acconsentirebbe alla visita domandata. Onde a ragione la marchesa gli riscrisse chiamandolo “debole d’animo„, e burlandolo come uomo il quale “stava chiuso in casa fino a sedici ore di ventiquattro per scriver la vita dei morti„, e con un cuore “piú piccolo di quello d’un polpastrello negava di soffrire la clausura di dodici ore con una dama in anima e in corpo.„ Insomma, non cedere al desiderio e allo spirito di lei era impossibile; ma Gregorio, dibattuto fra la necessità di non parere ridevolmente timido e il dubbio di non poter resistere alla tentazione, volle prima porre in sicurezza la sua continenza con una seconda lettera: “Di grazia, Madama, diciamo la cosa come passa, senza mascherarla: crede ella che sia una buona opera d’andare a visitarvi in prigione? Bagatelle!, anzi si corre pericolo d’entrar, come l’apostolo Pietro, santo nel pretorio di Pilato et uscirne carico di colpe. E se una serva ebbe tanta forza con un povero vecchiarello, che farà una gran dama, di tanta grazia e di tanta beltà, con uno che gode ancora il vantaggio della virilità? Madama, la bellezza in una dama è un dardo de’ piú acuti et una saetta delle piú fiere, et ivi farà la piaga maggiore dove piú dura troverà la pelle„. Cosí io penso che Sidonia di Lenoncourt dové seguire d’un’occhiata compassionevole il Leti uscente dalla sua gaia prigione e ch’ella dové mormorare scrollando le spalle fra dispettosa e annoiata: “Quant’è sciocco questo grande scrittore!„ III. Perché egli era già divenuto in fama di grande scrittore, e le sue opere levavan rumore in tutta Europa: già avvolto di carezze e di minacce, di ossequi e di calunnie, aveva sperimentato, quantunque invano, come il dire la verità o quel che gli sembrava la verità, fosse travagliosa impresa. Ginevra, dove, quasi in seconda patria, era stato ricolmo d’onori, dove, primo italiano il quale ne fosse parso degno, era stato fatto “cittadino borghese„, non fu piú luogo per lui dopo che ebbe dato di cozzo nell’“odio teologico„ di quei “predicanti„; e perché Luigi XIV lo lusingava di promesse se accettasse la nomina di suo storico, nel 1680 si portò con la famiglia in Parigi. Ma nella prima sua visita al ministro Colbert capí che al re non piaceva uno storico calvinista, e com’egli dichiarò che non sarebbe andato mai dal padre La Chaise, il quale aveva ricevuto incarico di rimetterlo nel “giron della Chiesa„, il ministro incollerito l’avverti “che il re avrebbe trovato presto la maniera di farvelo andare„. Cosí il Leti, che, sia detto a sua lode, rinunciava a un lauto stipendio per non rinunciare ai suoi princípi, s’allontanò incontanente da Parigi e a Calais s’imbarcò per l’Inghilerra. Ed ivi Carlo II l’accolse con molta degnazione, gli donò mille scudi e gli diede incarico di scrivere la storia del regno inglese; grave compito per altri che per il Leti, il quale la condusse a termine in breve tempo. Ma per avervi dette, al solito, cose che era meglio tacere, e sopra tutto per aver fatta certa profezia, “che se non si portava impedimento acciò non cadesse in successore cattolico la corona, si sarebbero viste tragiche scene di dentro e di fuori„, gli furon conceduti appena dieci giorni per uscire dal regno. Si rifugiò allora ad Amsterdam; e là finalmente trovò tutta la libertà che desiderava; ebbe l’ufficio di storiografo per gli Stati dell’Aja; ricevette onori piú che altrove: ivi chiudeva il secolo decimosettimo stampando la sua centesima opera e cominciava il secolo decimottavo lavorando, in età di settant’anni, quattordici ore al giorno intorno la Vita di Carlo V , la quale finí poco prima della vita sua, nel 1701. Fibra di ferro ebbe costui!; e benché anche adesso l’Italia non manchi di chi dà troppo a stampare, non avrà piú mai, speriamo, chi, per riuscire a comporre cento volumi, resista come il Leti a scrivere tre opere per volta consumando in ciascuna due giorni della settimana, e in ogni settimana faticando tre giorni dodici ore e tre altri, sei. Veramente, a differenza di molti instancabili scrittori odierni, non mancava d’ingegno; e nelle storie procedendo audace sin fuori della giustizia e feroce nelle satire sin fuori dell’onestà, commoveva e seduceva moltitudini di lettori. Né è strano che molti, pure cattolici, gli volessero gran bene, perché egli fu nella vita quale nelle opere: aperto, e cosí naturalmente arguto e ardito da movere incontro anche a gravissimi pericoli con sangue freddo e con motti ridevoli. Quando si trovava a Ginevra gli giunse un giorno questo avviso di Giuseppe Corso, libraio romano provveditore della casa Panfili: — Signor Gregorio, perché l’amo, la sua vita mi è cara: il Signor Principe Camillo Panfili, ch’è persuaso già che V. S. sia autore della Vita di donna Olimpia sua madre, ha giurato di spender cento mila doppie per farla pugnalare —; ed egli, gettato l’angoscioso biglietto nel fuoco, “acciò con questo se n’estinguesse la memoria, e preso un gran foglio di carta — e reale di piú, per fargliela costar piú cara alla posta —„ rispose all’amico: — Signor Gioseppe, il Signor Principe Camillo è troppo benigno e troppo economico per spender cento mila doppie per farmi pugnalare, se con dieci potrebbe farlo due volte. — In Londra, essendo la corte in tempesta per colpa della sua storia, corse a lui, una sera alle dieci, il fratello di sua moglie, il quale atterrito l’avvisò da parte di milord Cernis che il duca di York aveva dato ordine di assassinarlo: nel nome di Dio, guardasse la sua persona! — “E per questo vieni tu a svegliare il mio sonno?„ — gridò egli al cognato; e pieno d’ira lo coprí d’ingiurie; poi messolo fuori della camera riprese a dormire mentre quelli della famiglia stavano in pianti. L’indomani non fu loro possibile impedirgli di uscire, e agli amici che incontrandolo meravigliati gli ripetevano sotto voce il consiglio di lord Cernis, il Leti rispondeva ridendo: — “Il signor duca ha il cuore troppo augusto per risentirsi con la morte e con la prigionia della morsicatura d’una mosca„. — E cosí fece ogni volta che gli riferirono una vendetta imminente. Per tanta spontaneità e vivacità di spirito; per la facilità sua a cogliere, l’attitudine ad imaginare, la capacità a rendere tipi diversi in azione sarcastica, Gregorio Leti fu certo uno scrittore di satire singolare nel seicento e per noi degno di molta considerazione. È vero che ai nostri giorni niuno s’occupò di lui convenientemente, forse perché le sue satire derivano in gran parte la materia da pasquinate che si possono conoscere per altra via; forse perché feriscono le colpe dei papi e la corruzione de’ sacerdoti alti e bassi con un fine religioso o politico di cui oggi è troppo difficile avvertire la sincerità e l’importanza; forse, piú tosto, perché appariscono in gran parte libelli osceni. Infatti — contraddizione curiosa! — il calvinista riformato pur ne’ costumi è sconcio scrittore; ma, e come avrebbe potuto battere i peccati de’ preti senza essere tale? Del resto, altri vegga il danno ch’egli poté recare alla moralità: a me basta dare a vedere ch’egli ebbe forza e vena satirica e che meglio la rivelò appunto nelle composizioni piú lubriche. E meglio fra tutte, parmi, tant’è spietato e giocondo e acuto per rappresentazione di tipi, in quella intitolata.... — mal titolo, e bisogna coraggio, o pudibondo lettore, — Il Puttanismo romano . IV. Nell’agosto del 1666 sembrava che la santità di Alessandro settimo (Fabio Chigi senese) si disponesse davvero ad esaudire coloro che lo desideravano morto e ad accontentare in ispecial guisa le donne, cui gran mali eran venuti dal suo pontificato — “la nazione senese ha per una certa ragione d’istinto naturale.... diretta e implacabile l’antipatia contro il sesso muliebre„ —, e il 20 di quel mese stesso per Roma corse lieta la voce che il papa traeva gli ultimi respiri. Onde in quel dí “si videro le patriarchesse del bordello„ e molte loro emule dell’aristocrazia “con sollecita e esatta diligenza girar in diverse pratiche, stringersi in diversi negoziati e proponere diversi trattati per vedere in ogni modo possibile di far succedere l’elezione del nuovo Pontefice in alcuna creatura loro, o almeno in alcuno delli soggetti che per ragione di genio.... sapessero essere aderenti al loro partito e se ne fussero potute liberamente fidare....„ Come s’affaccendavano a ricercare le compagne per le ville intorno la città e ad inviare avvisi a quelle ch’erano a Frascati e nei luoghi vicini. Rintracciatesi, si composero in gruppi e ciascun gruppo scelse un nome di cardinale da proporre a pontefice. Cosí “Madonna Angela Sala, serenissima decana del bordello, con il suo squadron volante s’adoprava.... per l’inclusione del cardinale Spadino detto Santa Susanna„, che “aveva gagliardamente assicurata la loro fede„; Nina Barcarola in vece, nella quale era riconosciuta da molte una certa superiorità, essendo ella tutta cosa di Ravizza prelato possente in Vaticano, chiedeva voti per il Celsi protettore del suo Ravizza e seduceva ad aiutarla Nina Pandolfina, Nina delle Cannuccie, Maria Vittoria delle Masse; tra le dame, quella detta la Regina “si faceva avanti con la nominazione d’Azzolino Maldachino„, ma la duchessa Mattei, per ragioni d’igiene, preferiva il Bonelli, “non ostante la sua ispida e irsuta fisonomia„: l’Adrianella infervorandosi per il Rospigliosi, “vecchio nel mestiere, faceto nella conversazione, libero nel tratto„, contrastava colla principessa di Rossano, a cui solo l’Odescalchi pareva un “soggetto degno e un uomo di buona volontà„. Altre sostenevano altri, ed era facile capire che senza un lungo conclave non sarebbero riuscite ad accordo. Però il giorno 22 centoquattro donnine condotte da Angela Sala vollero raccogliersi a congresso, sole, senza le dame, nella via delle Vaschette. Ma l’adunanza ebbe principio non buono, perché gli “affezionati assistenti„ di quelle signore “con cotal impeto fecero ressa alla porta, che, non volendo l’un cedere.... luogo all’altro„, vennero alle mani e si maltrattarono: il canonico Scotti restò tutto pesto; l’abate Pizzisio perdette il naso; il cardinale Acquaviva patí una stretta funesta alle reni; monsignor Assarini n’usci tutto spelato, e peggio ancora, monsignor Altemps cadde all’indietro e la sua testa, che non si fracassò per miracolo, s’enfiò ad un enorme bernoccolo. Pur le “conclaviste„, ottenuto finalmente il silenzio, incominciavano la discussione, quand’ecco, recando nuova cagione di rumore, entrare con fare “sprezzante ma disinvolto„, assai dame, le quali pretendevano aver parte al congresso; né fu picciol merito della Regina se furono accolte in non trista maniera. Anzi la Regina, la quale era parlatrice larga e forbita, dopo aver proposto e fatto stabilire che da quel dí in poi “tanto le dame quanto le.... (quel tal nome che ha assonanza con dame ) andassero al pari e senza alcuna immaginabile distinzione, e che.... (quello stesso nome al singolare) e dama volesse dire l’istesso„, mise in campo l’elezione di Azzolino o di Maldachino. Ella si teneva certa che il primo concederebbe: 1.º una bolla che dichiarasse lecito ai religiosi d’andare.... “senz’alcun disturbo o pericolo„ a.... fare visite piacevoli; 2.º “la facoltà„ alle donne maritate o libere “di cavarsi la fantasia„, immuni “da vergogna e da pena, quando e quanto loro paresse„; 3.º l’espulsione da Roma di tutta la “genia de’ monsignori senesi„; 4.º.... — Ma questa io non la dico —. Se dalla nomina dell’Azzolino si ricavava tutto ciò, continuava la Regina delle dame, che importava s’egli era “una bestia cosí brutta„, se aveva “un viso cosí deforme, un tratto cosí rustico, una figura cosí mal fatta?„ Ma quando costui non soddisfacesse in alcun modo, ella garantiva questi altri vantaggi da un papa Maldachino: 1.º diverrebbero padrone d’andar dove loro piacerebbe, anche in palazzo con lui, e rimarrebbero libere d’ogni angheria; 2.º libere anche da quegli “scrocconi„ in mano dei quali dovevano stare durante le loro infermità; 3.º sarebbero istituite tra loro “le dignità civili e di Rota, Signatura e Camera„, ove entrerebbe una presidentessa a provvedere contro le impertinenze dei prelati; 4.º un concistoro vedrebbe di stabilire che i papi pigliassero moglie. E se Maldachino è brutto, ricordate, — aggiungeva la Regina — che “le pere tanto sono piú buone quanto sono piú brutte„. Già ella, conchiuso il suo lungo e bel discorso, s’era seduta, quando s’alzò l’Adrianella e “con volto ridente, benché non gran cosa, fatta una bella e graziosetta ma umil riverenza circolare„, cominciò a dire che quanto aveva promesso Sua Maestà tornava a solo utile delle.... signore pubbliche; che la confusione delle dame con esse non le piaceva affatto perché veniva a perdere “tutta la fatica et tutta la diligenza, che aveva usata in vita sua, di farsi stimar da dama se bene non fosse, e di esser creduta onesta se bene non era„, e che a lei bisognava soltanto un po’ di dominio, il quale sperava dal Rospigliosi. Ma Eleonora la Barcarola l’interruppe: la signora Adrianella pensava troppo a sé, dove ella, che pure aveva fatto Ravizza quello che era, e molto avrebbe potuto attendere dal Celsi, acconsentiva alla proposta della Regina, desiderando il vantaggio di tutte le compagne sue. E l’Adrianella a rispondere poco a tono e a insistere che fidarsi dei Celsi e dei Ravizza era pazzia. Ma come Dio volle il battibecco tra lor due finí e si fece avanti la “reverenda madre decana„, la quale “dopo di aver fatto da trenta smorfie di conto, cominciò a dire il fatto suo....„. Costei, a differenza della Regina, discorreva balzellando e con la sguaiata bonarietà e smaccata gaiezza che è propria delle vecchie sue uguali. Per lasciare comprendere di quanta esperienza era ricca si fece prima a raccogliere la storia della sua vita; poi vantò lo studio che poneva nel “formare„ e reggere le sue allieve, e citava fatti; poi, accorgendosi di andar per le lunghe prometteva di spicciarsi in due parole.... Ella, Ciccia dello struzzo venuta da Frascati e molt’altre avrebbero dunque preferito il cardinale Santa Susanna, in riguardo alla grande amicizia che le legava all’abate Bernardino nipote di lui, ma pur finivano con appagarsi del Maldachino. Maldachino?: “zitto zitto! — diceva a voce piú bassa e co ’l gesto di chi si prepara al racconto d’un bel caso; e rammentava come una volta lo vestirono da dama. Lo conosceva, insomma, per un buon ragazzo e non lo credeva “capace di distinguere il ben dal male.„ “Non aveva appena questa finito con altrettante smorfie, che incontanente ritornò a discorrere la Regina, e fatto prima un nobile et erudito ringraziamento alle pronte esibizioni della decana e.... stesasi ancora in un lungo encomio sopra le di lei qualità..., voltatasi alle altre....„ le richiese della loro opinione. “Datesi quelle giovinotte una guardata, scappò tra l’altre a parlare la prima Nina Fiorentina con un proemio di dicerie e di tratti poetici piacevolmente infilzati, che parve una pasquella che allora fosse uscita dalla cima di Monte Alcino o da Pistoia, e poscia fatto un esame generale a tutti li cardinali, e avendo ritrovato a chi il collare torto, a chi li calzoni corti, a chi il naso troppo piccolo, e chi troppo stretto in cintura, volando or qua or là, si posò alla fine sopra Bandinello. Al sentir tal nome saltò fuori la paesana sua, che era Margherita, e con uno strillo da disperata: — Oh affè di Dio non si poteva dir meglio!; cotesto costí vogliamo al certo, signor sí!„ — Ma le altre gravemente tutte in coro: — “È senese, nihil!, è senese, nihil!„ — (allusione alla forma di procedimento che “nelle cause de’ miserabili„ seguiva ogni giorno “l’ignorantissima canaglia della Signatura di Giustizia„). Escluso il Bandinelli; la principessa di Rossano adduceva le ragioni per cui le sembrava migliore l’Odescalchi, quando la fece ristare gran rumore di gente che veniva dalla parte di strada: era la signora Nina Stagnarina, la quale con un corteggio di sgualdrinelle entrava a lamentarsi di non aver ricevuto invito alcuno al conclave. Fu pronta a sgridarla la Rossano e a farla tacere ed uscire con ragioni molte e tali che io non ripeto perché sbigottiscono anche me; ma la principessa non poté subito riprendere l’interrotto discorso tanto le “conclaviste„ si lamentavano d’essere stanche, né ci volle meno del potere della Regina per ricondurle al silenzio. Finalmente la Rossano, con “un viso tra il brusco e il dolce, fatto all’usanza d’una pizza da un baiocco„, ebbe agio a ritesser le lodi dell’Odescalchi “un uomo da bene, uno spirito puro, un animo dotato di grandi virtú....„; — Un gesuita falso! — gridò la Brigidaccia impedendole di proseguire. Nuccia Belluccia, che aveva dalla sua Nuccia delle cannuccie, si levò poscia ad esprimere il suo desiderio di nominare “un buon fratone„, e fu tratto in ballo fra Silvio de’ Vecchi. Piú tosto poi il Celsi! — esclamava Nina Barcarola; e altre: — Meglio Santa Susanna! — Meglio il padre Caravita! — Era tempo di por termine al diverbio, e ciò fece la Regina sospendendo il concistoro al modo stesso — questo paragone lo posso fare — onde ogni bravo presidente termina ogni consiglio tumultuoso, e dicendo che per quel giorno bastava essersi persuase della difficoltà della questione, e che in altra adunanza (la indisse per la settima prossima) sarebbero venute a deliberare ultimamente. E la Eleonora Adrianella, “la quale, per esser tra l’altre forse la piú astuta e la piú pratica delle cose del mondo, aveva in testa di far riuscire la regola che a fare il Papa ci vuole raggiro, e con ingannare il compagno si gira tutta questa macchina del prelatismo, si alzò a dire quattro barzellette per licenziare il conclave„, trovando pur modo di pungere un poco la fortunata Regina. Ma allorché levatesi tutte in piedi stavano per andarsene, giunse d’improvviso Stecchino principe del bordello, il quale, “tutto affannato e afflitto, datosi di mano al cappello e fatta una riverenza a mezza luna con quelle sue gambe storte, cominciò a mezzo il congresso, con mille sospiri e quasi sommerso in un torrente di lacrime, ad ululare in questa maniera: Siamo rovinati, siamo spediti, oh poverini noi! Oh disgrazie della natura, oh malvagità delle stelle!: il Papa sta meglio! — “Parve che a quelle misere, al suono di queste voci, uscisse l’anima e svanisse lo spirito„; e sola ad una rimase la forza di interrogarlo. Ah! — egli si era introdotto in Palazzo e già aveva saputo che “mancavano pochi minuti alla comune felicità, quando una straordinaria allegrezza di quei matti di là dentro lo aveva fatto cadere negli abissi delle miserie„. E cosí avvenne che tutte quelle signore se n’uscirono piangendo e lamentando dal luogo ove eran entrate piene di letizia. — Ma io dubito molto che questo riassunto possa lasciare in chi mi legge la vivace ed efficace impressione che il piccolo libro lasciò in me, nauseato lettore di cose del seicento. In proposito del qual Puttanismo vo’ riferire un’altro aneddoto non inutile anch’esso alla conoscenza del Leti e dei suoi tempi. Nel 1675, a Ginevra, fu spedita a Gregorio Leti una lettera da certa Suor Agnese Mansola, la quale godeva rinnovarglisi nella memoria come colei che già molt’anni innanzi aveva servita da cameriera la sorella di lui, a Milano, e da lui stesso, quando la chiamavano ancora Bellottola, aveva ricevute non poche carezze. Ed essa gli raccontava che morta la sua prima e buona padrona era stata traviata da un marchese e poi da un abate romano, il quale l’aveva indotta a recarsi a Roma, ove in breve era divenuta cortigiana famosa acquistandovi il pomposo nomignolo di Regal meretrice . Ma in quell’anno del giubileo il Signore le aveva tócco il cuore sí che aveva fatto dono di dieci mila scudi al monastero in cui s’era rinchiusa. — “Mi son riservati — ella finiva — cento scudi romani, ch’è il salario ricevuto dalla sua signora sorella, e della metà ne farò dir messe per il riposo dell’anima di questa e dell’altra preghiere al Santo Spirito per la sua conversione, oltre alle mie preghiere particolari„. Il Leti rispose: “.... Di lei non ne avevo inteso parlar minima cosa dalla morte in poi della mia sorella, né mai avrei pensato che Bellottola di Milano fosse fatta la Regal meretrice di Roma, della quale ne avevo inteso far conti tali, che aveano dato la volontà all’autore del Puttanismo di Roma d’infilzarvela dentro con gratiose maniere vantaggiose a tal sua professione.... Le dirò intanto che per una nuova convertita il mentir cosí sfacciatamente mi dà da pensare. Mi scrive d’aver abbandonato il peccato, in luogo di dire ch’è stata dal peccato abbandonata. La mia sorella è morta sono appunto trent’anni: quattro di servizio, son trentaquattro, e ventuno che aveva quando entrò a servirla, son cinquantacinque; et intanto si loda d’aver abbandonato il peccato? Anzi doveva scrivermi che per dispetto al peccato, che l’aveva abbandonata erano quindici anni (giacché in Italia, passati li quarant’anni, si mandan le donne al diavolo), aveva presa la risoluzione di far la penitente.... Non so comprendere questo suo zelo di voler salvar la mia anima per gli obblighi che aveva alla mia sorella..... Perché non conservar meco quest’obbligo.... co’l farmi suo erede?; che senza scrupolo avrei ricevuta l’eredità„. E consigliandola d’impiegare i cento scudi romani, invece che in messe e in preghiere, in elemosine, conchiudeva: “Si ricordi talvolta che non è il giubileo che l’ha convertita, ma la sua età„. V. Ma per tornare ad Alessandro settimo, egli morí davvero poco dopo l’imaginato conclave di quelle tali donnine, e della sua morte e del suo viaggio all’altro mondo Gregorio Leti seppe e narrò assai cose piacevoli. La qual satira — Il sindacato di Alessandro VII con il suo viaggio nell’altro mondo , — è di quelle la cui essenza, tutta di pasquinate, trova disposizione in una tela semplice ma ingegnosa di fatti. Cosí mentre il morto pontefice è spedito dritto dritto in Purgatorio e là giú tenta invano di procedere come in vita, e solleva gran discorsi di sé, quassú in Roma passa dinanzi ai Conservatori e a Pasquino e Marforio, l’uno fiscale e l’altro scriba nel congresso, la moltitudine di coloro che hanno da significare i torti ricevuti da lui: monsignori e cardinali tristi, de’ quali non è stata appagata abbastanza l’avidità e l’ambizione; preti miserabili, vittime dell’ingordigia dei maggiori; fidati impudenti rivelatori delle proprie per rivelare le colpe altrui; gentiluomini stranieri pieni di nausea per la politica e la corruzione di Roma: una fila lunga di persone, a cui non manca espressione; tra cui è anzi piú d’una macchietta a tratti rapidi e vivaci. I conservatori ascoltano in silenzio il racconto delle piccole colpe o dei delitti nefandi; ma, per contro, discorrono assai Pasquino e Marforio, il primo strapazzando spesso i querelanti, e ammonendoli il secondo; e dando l’uno notizie e argomento di dispute all’altro: giacché lo scriba e il fiscale, quantunque siano i due amici che tutti sanno, non si trovano sempre d’accordo per cagione del loro carattere molto diverso. Pasquino è sagace e senza paura e irascibile; Marforio, meno pronto di testa, meno sicuro d’animo, difficile ad infiammarsi: l’uno, quando è il caso e può, cerca di salvar capre e cavoli e s’imbroglia; e l’altro si stizzisce. “Tu sei nato per farmi crepare, Marforio, con queste tue procediture — dice Pasquino —, le quali servono a farti stimare un poco meno cattivo di me; ed in fatti tutti parlano di Pasquino: Pasquino qua e Pasquino là: le punture, le ferite, le maldicenze ed ogni sorta di mormoro s’applica a Pasquino; in somma non si parla, quando si tratta di mala vita, che di Pasquino; a tal segno che hanno dato titolo ad ogni sorta di satira, di pasquinate ; ma di te non si parla che poco o niente, e sinora non s’è inteso mai dire marforiata . E perché questo? Perché io parlo con libertà; perché quello che ho nella bocca ho nel cuore, e nel cuore non resta che quello che va fuori dalla bocca; perché sono amico degli amici e nemico dei nemici; perché non faccio distinzione di qualità di persona, menando al pari i grandi con i piccoli....; ma tu, al contrario, vai sempre risarcendo quello che rompi e cerchi di rompere quello che mostri di risarcire..... Se io sapessi fingere come fai tu, non averei la testa rotta....„ — Risponde Marforio ch’egli nacque non ai tempi in cui nacque lui, ma quando i piú “nascevano con due faccie, l’una ricevuta dalla natura nel luogo ordinario e l’altra dietro le spalle: non esser meraviglia se ritiene della natura propria a molti di quelli che è andato praticando.„ Non meno piacevole e ugualmente intessuta di pasquinate è l’ Ambasciata di Romolo ai Romani . Gli annali sacri e profani di Roma, “già compiuti da parecchie autorità per ordine di Romolo„, erano letti ad alta voce in cospetto di tutti i numi, i quali con diversa commozione ascoltavano i grandi fatti e le grandi sventure dell’alma città, e la gloria a cui l’avevano innalzata con meravigliosa alleanza la fortuna e la virtú, e le ruine in cui l’avevano precipitata il papato, i barbari e Carlo quinto, allorché Mercurio si presentò tutt’afflitto alla suprema raunanza e, mancandogli la voce, spiegò la causa del suo dolore con fogli che dié a leggere a Romolo stesso. Contenevano tre poesie di rammarico in morte di Clemente nono; e dalla lettura loro Romolo ricevette tanto cordoglio che si mise a piangere, e cosí, con il capo tra le mani, a pensare i mezzi di salvezza per la sua città, su la quale minacciava di nuovo la tirannia del nipotismo. Andar egli a riporvi le cose nello stato d’una volta in un tempo in cui “gli ecclesiastici non potevano soffrire altro dominio che il proprio„, era certo impresa troppo arrischiata: meglio spedire un ambasciatore che sotto apparenza di consolare il popolo romano per la morte del buon pontefice, ricercasse s’ei fosse disposto a vivere nel regime del paganesimo; e giacché agli ambasciatori conveniva fasto e nobiltà, gli parve ancor meglio inviarvi Remo suo fratello. E Remo con una lettera “credenziale„ per i Romani e con gli ammonimenti del fratello, e a capo d’una scelta comitiva, si mise subito in viaggio. Aveva di piú, per “non rincontrare in quei viluppi in che sogliono cadere bene spesso quei ministri che vanno a negoziare senza conoscere l’umore delle nazioni„, una memoria intorno “i costumi de’ principali popoli d’Europa„. Nella quale tra le altre cose, era detto che: in statura il Tedesco è grande; l’Inglese di bella presenza; il Francese di bel garbo; l’Italiano mediocre; lo Spagnuolo spaventevole.... In amore: il Tedesco non sa l’arte d’amare; l’Inglese ama bene in pochi luoghi; il Francese ama per tutto; l’Italiano sa come bisogna amare; lo Spagnuolo ama bene. In scienza; il Tedesco sa come un pedante; l’Inglese come un filosofo; il Francese di tutto sa un poco; l’Italiano sa come un dottore; lo Spagnuolo è profondo.... In ingiurie e benefici: il Tedesco non fa né bene né male; l’Inglese fa bene e male; il Francese scorda il bene e il male che fa e che riceve; l’Italiano serve con affetto e si vendica con ira; lo Spagnuolo ricompensa il bene e il male. In pasti: il Tedesco è un briaco; l’Inglese è un ghiotto; il Francese delicato; l’Italiano sobrio; lo Spagnuolo scarso.... In costumi: Il Tedesco è rustico; l’Inglese crudele; il Francese cortese; l’Italiano civile; lo Spagnuolo disprezzante.... In magnificenza: il Tedesco è magnifico in privato; l’Inglese in mare; il Francese nella corte; l’Italiano nella chiesa; lo Spagnuolo nell’armi. In bellezza: il Tedesco è come una statua; l’Inglese come un angelo; il Francese come un uomo; l’Italiano come può; lo Spagnuolo come un diavolo.... In presenza: il Tedesco di rado ha bel garbo; l’Inglese ha la vista né di savio né di matto; il Francese un garbo stordito, et è in effetto; l’Italiano ha la vista di savio et è matto; lo Spagnuolo ha la vista di matto et è savio.... In matrimonio: il Tedesco è padrone; l’Inglese servidore; il Francese buon compagno; l’Italiano carceriere; lo Spagnuolo tiranno. Le donne: in Germania fanno risparmiare, ma sono fredde; in Inghilterra sono regine e libertine; in Francia dame e lascive; in Italia prigioniere e cattive; in Spagna schiave et amorose.... In viaggio: il Tedesco viaggia per costume; l’Inglese per capriccio; il Francese per osservare i fatti d’altri; l’Italiano per imparare; lo Spagnuolo per necessità. E Remo, da buon italiano, s’istruiva assai viaggiando di cielo in terra, tanta gente incontrava che gli dava a leggere satire e tanti l’accompagnavano per discorrergli delle tristi condizioni di Roma. Meno male che giunto nella eterna città fu consolato dall’elezione d’un ottimo cardinale a pontefice: l’Altieri, che prese il nome di Clemente primo. VI. Quest’anima satirica di Gregorio Leti, anzi che infiacchirsi o addolcirsi, nella vecchiaia resistette e rincrudí, e oramai settantenne egli diede fuori quella Critica delle lotterie , per cui un ministro di Luigi XIV fu indotto a dire: “So bene perché il re di Francia ha fatto la guerra a tanti suoi particolari nemici, ma non so trovar la ragione che abbia possuto muovere il sig. Leti a farla a tutto il genere umano.„ Infatti, giú botte da orbo a príncipi, ad ambasciatori, a generali; a tribunali, a senati, accademie, università, eserciti, nazioni; a nobili e a plebei; a ricchi e a poveri; a letterati e ad idioti; a religiosi di ogni chiesa e a increduli; a stampatori, a donne, a sé stesso. E in tempi che per reo costume l’adulazione e la viltà ruinavano la società tutta, queste satire acerbe piacquero come opere sincere e forti; né fastidiscono oggi chi le riguardi; non foss’altro perché noi, gente temperata e morale, ripugnamo sí dalla maldicenza infamante e dagli scandali de’ nostri giorni, ma ci volgiamo poi con certo gusto alla ricerca di vecchi scandali e infamie vecchie; vecchie, siano pure, di due secoli.